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Il Fopponino - 10 settembre 2023



10 settembre: consigli ed esercizi per il tempo della ripresa


“Viviamo di una vita ricevuta”

La gioia del Padre nel contemplare l’opera compiuta nella sapienza del Verbo per potenza di Spirito Santo è la benedizione che accompagna tutta la vicenda umana e tiene viva la speranza della beati-tudine, anche nelle molte spaventose ombre che segnano la storia di tutti i tempi, del nostro tempo.

La Pasqua di Gesù è la rivelazione della via che porta alla glo-ria: la via della vita donata, dell’amore fino alla fine. La Chiesa cele-bra nel tempo il mistero che salva. Non ha altro da fare che ricevere il dono dello Spirito perché ogni giorno della storia, ogni situazione del-la vita, ogni figlio d’uomo sia reso partecipe della vita del Figlio Uni-genito, primogenito dei risorti. (..)

Il punto di partenza irrinunciabile è la professione di fede che riconosce la vita come dono di Dio. In questo senso si deve intendere la vita come “vocazione ad amare”. (..)

Nel contesto in cui viviamo, la proposta cristiana può essere considerata come una sorta di stranezza d’altri tempi, può essere di-sprezzata come ridicola, può essere intesa come la pretesa di giudica-re, come una invadenza fastidiosa. Ma i cristiani non vogliono e non possono giudicare nessuno. Sperimentano però che, vivendo secondo lo Spirito di Dio e l’insegnamento della Chiesa, ricevono pienezza di vita, hanno buone ragioni per avere stima di sé e degli altri, affrontano anche le prove animati da invincibile speranza. migliori di nessuno. Sentono però la responsabilità di essere originali e di avere

Con questo spirito incoraggio tutti a non rinunciare alla responsabilità della testimonianza, della proposta, dell’accompagnamento educativo sui temi che riguardano l’educazione affettiva, la preparazione al matrimonio religioso, l’accoglienza della vita, il lavoro, la pace, il tempo della terza età”.


Mons. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano

Dalla Introduzione alla Proposta pastorale per l’Anno 2023-2024



Altri Piccoli Passi Possibili

“Nel silenzio di piazza Anita Garibaldi l’aria è rimasta ferma. (*)

I minuti scorrono lenti come il sangue che esce dalla ferita alla nuca e la vita ha esattamente quel residuo di ritmo e di gocciolante consapevolezza. Sono secondi di assoluta e tremenda luci-dità. Cinque sono le cose che un uomo rimpiange quando sta per morire. E non sono mai quelle che consideriamo importanti du-rante la vita. Non saranno i viaggi confinati nelle vetrine delle agenzie che rimpiangeremo, e neanche una macchina nuova, una donna o un uomo da sogno o uno stipendio migliore. No, al mo-mento della morte tutto diventa finalmente reale. E cinque le co-se che rimpiangeremo, le uniche reali di una vita.

La prima sarà non aver vissuto secondo le nostre inclinazioni, ma prigionieri delle aspettative degli altri. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili o abbiamo cre-duto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda, dalle false attese nostre, per curare magari il risentimento di ferite mai affrontate. La maschera di chi si accontenta di essere amabile. Non amato”.

Il secondo rimpianto sarà aver lavorato troppo duramente, lasciandoci prendere dalla competizione, dai risultati, dalla rincorsa di qualcosa che non è mai arrivato perché non esisteva se non nella nostra testa, trascurando legami e relazioni. Vorremmo chiedere scusa a tutti, ma non c’è più tempo.

Per terzo rimpiangeremo di non aver trovato il coraggio di dire la verità. Rimpiangeremo di non aver detto abbastanza “ti amo” a chi avevamo accanto, “sono fiero di te” ai figli, “scusa” quando avevamo torto, o anche quando avevamo ragione. Abbia-mo preferito alla verità rancori incancreniti e lunghissimi silenzi.

Poi rimpiangeremo di non aver trascorso tempo con chi amavamo. Non abbiamo badato a chi avevamo sempre lì, proprio perché era sempre lì. Eppure il dolore a volte ce lo aveva ricordato che nulla resta per sempre, ma noi lo avevamo sottovalutato come se fossimo immortali, rimandando a oltranza, dando la precedenza a ciò che era urgente anziché a ciò che era importante. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L’abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche so-lo una telefonata e chiedere come stai.

Per ultimo rimpiangeremo di non essere stati più felici. Eppure sarebbe bastato far fiorire ciò che avevamo dentro e attorno, ma ci siamo lasciati schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, invece di amare come i poeti, invece di conoscere come gli scienziati. Invece di scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori. Quello che l’adolescente scorge nell’addensarsi del suo corpo: promesse. Quello che il giovane spera nell’affermarsi della sua vita: amori.

Don Pino non rimpiange nessuna di queste cose.

Le ha avute tutte nell’amore. Per lui era già tutto reale, per questo sorride attraversando la soglia. (..)

Lui adesso entra nel luogo in cui ogni paradosso è sciolto.

Entra in Dio e nel suo abbraccio, dove ogni desiderio è possesso e ogni possesso desiderio. Senza dolore. Ogni partenza è arrivo e ogni arrivo partenza. Senza dolore. I granelli di sabbia finiscono. Finisce la paura.

Non può rimpiangere nulla: ha dato e ricevuto tutto.

Ha cercato di far nascere l’acqua nelle vie dell’arsura, l’albero nel cemento delle città, il cielo nella strada, il paradiso nell’inferno. Rivede il volto della madre e quello del padre, che gli sorridono e lo prendono per mano e lo fanno dondolare, come quando era bambino. Lo fanno dondolare ogni volta più in alto.

Finiscono lo spettacolo del mondo e la risata dell’inferno. Si placa l’avvicendarsi di sogni e sangue. Si compiono la storia e i suoi istanti.

Morire all’improvviso è l’unico modo di portarsi avanti con gli addii.

E a Dio affida tutti quelli che restano.

L’ultimo sguardo è per un cielo trafitto di stelle.

Corrono veloci le galassie verso le mani del Creatore, tanto che la luce non fa in tempo a raggiungere i nostri occhi. Apre le braccia, sfinito.

Adesso tutto quello per cui ha spasimato è per sempre, ed è suo”.

Alessandro D’Avenia

Da CIO’ CHE INFERNO NON E’ (pag. 287-289)





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